RESPONSABILITÀ DISCIPLINARE DEL MAGISTRATO NELL’ESERCIZIO DELLE FUNZIONI: NON ESISTE UN “DIRITTO DI OBIEZIONE DI COSCIENZA”

Il rispetto della dignità della persona umana richiede che il Magistrato emetta provvedimenti con un percorso motivazionale che sia effettivo e concretamente verificabile (Corte di Cassazione, Sez. Un., n. 3780/21, dep. 15 febbraio 2021).

Un giudice, all’epoca dei fatti magistrato di sorveglianza, veniva sottoposto a procedimento disciplinare perché egli, adito con istanza di autorizzazione ad allontanarsi dall’abitazione da parte di una donna, ristretta in regime di detenzione domiciliare, al fine di sottoposti ad un intervento di interruzione volontaria di gravidanza, respingeva in modo abnorme la detta richiesta dichiarando di non ravvisarne i presupposti. Secondo il capo di imputazione tale motivazione sarebbe stata fondata su un’interpretazione della disposizione del codice di procedura penale intenzionalmente e palesemente in violazione alla legge, strumentalizzata al fine di impedire alla istante di eseguire il programma di intervento che, però, lo stesso riteneva non praticabile perché contrario ai suoi principi religiosi tanto che, con secondo provvedimento facente seguito alla seconda istanza della donna, rimetteva il fascicolo al Presidente della sezione con la seguente motivazione ‘ritenendo questo magistrato di astenersi dall’emissione del richiesto provvedimento per ragioni di coscienza e ritenendo che il diritto all’obiezione di coscienza debba essere riconosciuto anche gli appartenenti all’ordine giudiziario’. Il capo di incolpazione si basava sul fatto che con detta condotta il magistrato, violante i doveri di imparzialità, correttezza, equilibrio e rispetto della dignità della persona, aveva arrecato un ingiusto danno, consistito nella necessità di riproporre l’istanza e rinviare l’intervento chirurgico, in data prossima alla scadenza dei 90 giorni entro i quali era possibile praticare il detto intervento, nonché una lesione dei diritti personali dell’istante, nelle specie il diritto alla salute ex art. 32 Cost..

La Sezione disciplinare del CSM dichiarava l’uomo responsabile dei detti illeciti e gli infliggeva la sanzione disciplinare della censura. In particolare, la Sezione disciplinare, dopo aver premesso che la richiesta della donna era senz’altro intesa ad ottenere l’autorizzazione a recarsi fuori dal luogo della detenzione domiciliare per sottoporsi a trattamento di interruzione volontaria della gravidanza, osservava che le ragioni oggettive della richiesta rientrano sicuramente tra quelli indispensabili esigenze di vita la cui sussistenza consente l’autorizzazione ad assentarsi dal luogo di detenzione domiciliare per il tempo necessario a provvedere alla loro soddisfazione. Il provvedimento emesso dal magistrato, secondo la Sezione disciplinare, non fa riferimento ad una dedotta deficienza probatoria delle esigenze di vita invocate a fondamento della richiesta, piuttosto esso apoditticamente finisce per affermare non già che l’esigenza rappresentata non risultava documentata ma che le ragioni addotte a sostegno della richiesta non rientravano tra quelle per le quali l’adozione del provvedimento richiesto risultava astrattamente possibile. Da qui in rilievo che il provvedimento assunto, a causa della sua apodittica affermazione, costituisce un provvedimento privo di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dei quali tale sussistenza risulti. Tra l’altro, la stessa condotta risulta lesiva dei doveri di cui al decreto legislativo n. 109 del 2006, tale da recare un ingiusto danno alla richiedente la quale, per effetto del provvedimento contestato, aveva dovuto rivolgersi ad un legale per la presentazione di una nuova istanza a garanzia della protezione dei propri interessi e aveva dovuto rinviare a data successiva, prossima la scadenza del termine di legge per effettuare l’intervento programmato, la soddisfazione di quelle fondamentali esigenze di vita, ingiustificatamente compromesse e messa a rischio dal provvedimento contestato.

Quanto all’adozione del secondo provvedimento, la Sezione disciplinare aveva ritenuto che esso, pur fondato su una impropria evocazione dell’obiezione di coscienza, valeva almeno come richiesta di astensione implicitamente accolta dal capo dell’ufficio, pertanto, se ne è esclusa la specifica rilevanza disciplinare. Per la Cassazione della sentenza della Sezione disciplinare del CSM l’uomo proponeva ricorso alla Corte di cassazione.

Con il primo ed il secondo motivo di impugnazione il magistrato lamentava l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale nonché la mancanza assoluta di motivazione difetto di motivazione emergente dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti del processo. Tanto poiché la Sezione disciplinare avrebbe proposto inammissibilmente una propria interpretazione del provvedimento, meramente astratta ed ipotetica, sostitutiva e suppletiva della libertà decisione del giudice e contraddetta dalla condotta dell’istante. Ad avviso del ricorrente, il provvedimento adottato avrebbe rispecchiato la situazione di insussistenza dei presupposti di quanto richiesto, non affermando neppure implicitamente alcun principio abnorme. Tale provvedimento, infatti, avrebbe raggiunto in pieno il suo scopo, avendo l’istante perfettamente compreso le ragioni il motivo del rigetto e la sua richiesta, adeguandosi di conseguenza.

Inoltre, la Sezione disciplinare del CSM avrebbe del tutto omesso di valutare le ragioni e i documenti posti a sostegno del detto primo provvedimento, omettendo di effettuare la prova di resistenza del proprio ragionamento alla luce della veduta riproposizione dell’istanza in maniera più articolata e documentata.

Tuttavia, entrambi i motivi che sono stati esaminati congiuntamente data la loro stretta connessione, sono stati dichiarati infondati. Nella specie, per la Suprema Corte, l’interessata, in stato di detenzione domiciliare, si è rivolta al magistrato di sorveglianza con una istanza iscritta con la quale, certificata la propria gravidanza come da allegata documentazione, ha chiesto di essere autorizzata ad allontanarsi da casa per sottoporsi a un intervento di interruzione volontaria della gravidanza, deducendo di non essere intenzionata a portare a termine la gravidanza stessa. Ma il magistrato ha rigettato l’istanza non ravvisando i presupposti richiesti dalla normativa di settore e, quindi, correttamente la Sezione disciplinare ha ritenuto che l’emissione del provvedimento contestato, per le modalità che lo hanno caratterizzato, integri l’illecito disciplinare imputato. Per gli Ermellini le ragioni oggettive della richiesta presentata dall’interessata, consistenti nell’interruzione volontaria della gravidanza presso una struttura ospedaliera pubblica, indiscutibilmente rientrano tra quelle indispensabili esigenze di vita, la cui sussistenza consente l’autorizzazione ad assentarsi dal luogo della detenzione domiciliare per il tempo necessario a soddisfare alla loro realizzazione. Vieppiù nel caso di specie, ove risulta che nel detto provvedimento non vi è alcun riferimento, neppure nella forma più sintetica, ad una carenza di adeguata documentazione probatoria dell’istanza, essendovi la sola apodittica affermazione che non si ravvisano i presupposti ex art. 284, comma 3, c.p.p.

Con il terzo motivo il ricorrente sostiene che il provvedimento contestato non potrebbe, comunque, dirsi illegittimo perché non è contra legem né illegittimamente emesso, essendo al contrario stato legittimamente e legalmente dato nell’ambito di una adeguata e corretta attività giurisdizionale e che la sentenza sarebbe del tutto carente in punto di motivazione, con riferimento alla violazione di doveri del magistrato e dei pregiudizi subiti dall’istante, non rendendo neppure conto dell’eventuale ingiustizia di tali pregiudizi non essendo in grado di porre alcun nesso causale tra il fatto disciplinare, per come ritenuto, con i presunti danni ingiusti. Tuttavia, anche questo motivo viene dichiarato infondato, dato che è evidente che allorquando la Commissione disciplinare ha qualificato come illegittimo il provvedimento di diniego, ha inteso censurare il comportamento deontologicamente scorretto del magistrato incolpato il quale, affermata apoditticamente l’insussistenza dei presupposti di legge per l’accoglimento della richiesta autorizzazione, ha emesso un provvedimento assolutamente privo di motivazione, laddove la motivazione è richiesta dalla legge, così allontanandosi dal modello costituzionale di giudice e di giustizia. Inoltre, la Sezione disciplinare ha chiaramente individuato un ingiusto danno, patito dall’istante in conseguenza del diniego immotivato di autorizzazione, sia nella necessità di rivolgersi a un legale per la presentazione di una nuova istanza – a garanzia della protezione dei propri interessi- sobbarcandosi degli oneri di una difesa tecnica, sia nel rinvio dell’esecuzione dell’intervento programmato per altra data. Soprattutto viene rilevato che, in questa seconda conseguenza, il giudice disciplinare ha specificamente ravvisato il concreto pregiudizio della donna già nell’aver dovuto rinviare a data successiva, prossima alla scadenza dei termini di legge, l’effettuazione dell’intervento di interruzione volontaria della gravidanza -già di per sé disagevole sotto il profilo psicologico e fisico per ogni donna vieppiù per chi si trova in regime di detenzione domiciliare-, in quanto è così che il provvedimento ha ingiustificatamente compromesso e messo a rischio la soddisfazione di un interesse primario per la persona coinvolta.

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