IL REGOLAMENTO INTERNO CHE PRECLUDE “SEGNI RELIGIOSI VISIBILI” NON E’ DISCRIMIATORIO

La vicenda ha origine in Belgio, dove una donna di fede musulmana ha presentato candidatura per un tirocinio presso una cooperativa di gestione di alloggi popolari. Superato il colloquio, dietro espressa richiesta della cooperativa, ha chiarito di non poter ottemperare alla politica aziendale di neutralità nell’abbigliamento prevista nel regolamento interno, poiché inconciliabile col proprio credo religioso. La donna formulava una “proposta alternativa” di indossare un differente copricapo, che però veniva respinta in quanto la cooperativa non consentiva nemmeno l’uso di cappellini o veli. Alla candidatura spontanea non veniva pertanto dato seguito.

La candidata instaurava pertanto una causa civile avanti al Tribunale del Lavoro contro la decisione della cooperativa, lamentando la mancata conclusione dell’accordo lavorativo e sostenendo che fosse discriminatoria perché fondata sulle convinzioni religiose della donna. Il giudice del lavoro sospendeva il procedimento e proponeva domanda di “pronuncia pregiudiziale” alla CGUE sull’interpretazione della direttiva in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni sul lavoro (Direttiva n. 2000/78/CE).

La Corte nella recentissima sentenza del 13.10.2022 ritiene che religione e convinzioni personali debbano essere considerate un solo e unico motivo di discriminazione, che comprende tanto le convinzioni religiose quanto quelle filosofiche o spirituali e chiarisce che “Non crea discriminazione diretta il regolamento interno di una società che vieti a qualunque dipendente di indossare ogni segno religioso visibile, grande o piccolo. Siffatto divieto, trattando tutti i dipendenti in maniera identica, impone una neutralità di abbigliamento in maniera generale e indiscriminata“.

CGUE, sentenza 13 ottobre 2022, causa C-344/20, (ECLI:EU:C:2022:774)

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