LA CEDU “BACCHETTA” L’ITALIA PER LE CARENZE DELLA LEGGE PINTO IN RIFERIMENTO AI GIUDIZI PENALI

Nel caso Petrella c. Italia (ric.24340/07) del 18 marzo la CEDU ha riconosciuto una lesione dei diritti del ricorrente all’accesso alla giustizia, a veder definita la lite in tempi ragionevoli e del diritto ad un rimedio interno per far valere i propri diritti.

La vicenda.

Nel 2001 Petrella, avvocato e proprietario della squadra di calcio Casertana; aveva denunciato un quotidiano locale per un articolo diffamatorio in cui venne accusato di frode e di corruzione finanziaria. Sporse querela per diffamazione a mezzo stampa, chiedendo un risarcimento (in lire) miliardario e dichiarando espressamente di volersi costituire parte civile nel processo. Orbene il giudizio, rimasto sempre alla fase investigativa e pendente presso il GIP di Salerno, fu archiviato per prescrizione dopo 5 anni e mezzo circa. Non potendosi costituire parte civile, a causa di queste lungaggini, non ha potuto richiedere l’equo indennizzo ex Legge Pinto.

Mancato accesso al Tribunale ed assenza di rimedi interni. Il ricorrente aveva deciso di usare uno dei rimedi interni previsti dal nostro ordinamento giuridico, ma per le carenze e l’eccessiva durata delle indagini non ha potuto far valere i suoi diritti sia al risarcimento per la lesione della sua reputazione sia ad un equo indennizzo per questi ingiustificati ed ingiustificabili ritardi.

La CEDU ha rimarcato la sua prassi (Manolea ed altri c. Romania del 15/9/20, Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania [GC] del 25/6/19 e SOS racisme – Touche pas à mon pote c. Belgio del 12/6/16) che ha escluso una lesione all’accesso alla giustizia ed all’equo processo laddove la parte aveva usato uno dei rimedi previsti dal diritto interno (nel caso di un’azione penale si è tenuto conto della possibilità d’introdurre una causa civile per tutelare gli stessi diritti) e dell’archiviazione della stessa o della conclusione con assoluzione con formule piena per vari motivi (morte dell’accusato, patteggiamento, immunità etc.).

Suddetta lesione è stata invece riconosciuta quando «la chiusura dell’indagine ed il mancato esercizio di un’azione civile» sono dovuti ai ritardi procedurali ascrivibili alle autorità giudiziarie. Nella fattispecie il ricorrente non solo non ha ottenuto giustizia, ma non ha potuto nemmeno costituirsi parte civile nel processo sì da vedersi preclusa la possibilità di chiedere l’equo indennizzo.

Per la refusione dei danni avrebbe dovuto intentare una nuova azione in sede civile, ma questa non è una soluzione idonea dato che avrebbe comportato un ulteriore aggravio di tempo e di costi: è difficile anche reperire nuove prove stante il lungo lasso temporale da quando è stata ravvisata la lesione della sua reputazione.

Critiche alle norme sull’equo indennizzo nel penale. Si noti che la CEDU ha sempre considerato la Legge Pinto (e quindi l’equo indennizzo) una misura efficace ed atta a raggiungere gli scopi prefissi dagli artt. 6 e 13 Cedu (Scordino ed altri c. Italia del 26/3/03, Cocchiarella c. Italia [GC] del 2006, Daddi c. Italia del 2/6/09, Bencivenga c. Italia ed Ascierto, Bufalino c. Italia del 5/11/13, Quattrone c. Italia e Maffei e De Nigris c. Italia nei quotidiani del 7 e 2 6/11/13).

Va anche detto che questi erano casi in cui per lo più si chiedeva l’adeguamento dell’equo indennizzo e per quelli attinenti al penale si era analizzato per lo più l’indennizzo dovuto all’ingiusta detenzione: si trattava di problematiche ben diverse da quella in analisi. Anche in quei casi il nostro ordinamento era stato criticato dalla CEDU.

Nella fattispecie, come previsto dalla giurisprudenza costante della Cassazione (non citata però in sentenza) la richiesta d’indennizo ex Legge Pinto può essere avanzata solo da chi si è costituito PC nel giudizio penale. Orbene nel nostro caso il ricorrente, come detto, si era trovato impossibilitato a costituirsi parte civile a causa dell’eccessiva durata delle indagini e della sopravvenuta prescrizione: ex art.79 la costituzione di parte civile è possibile solo all’udienza preliminare innanzi al GUP, ma nel nostro caso il processo si era arenato innanzi al GIP. La CEDU non può che dare atto di queste preclusioni e, quindi, dell’assenza di un ricorso previsto dalla legge interna per far valere le conseguenze dell’eccessiva durata del processo penale: non essendoci rimedi interni per tutelare i propri diritti in questi casi la CEDU, all’unanimità, ha ravvisato una deroga all’art. 13.

Opinioni parzialmente dissenzienti dei giudici Sabato e Wojtyczek. Evidenziano come non si possa invocareun’impossibilità di accesso alla giustizia nel caso in esame: a loro avviso niente e nessuno impediva di esperire, anche contestualmente a quella penale, un’azione risarcitoria in sede civile. Per il giudice Sabato, che ha fatto un excursus molto articolato cui si rinvia, questo sviluppo importa una confusione di concetti e di errori sulle tutele offerte dalla CEDU tale da considerarlo scorretto e pericoloso.

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